sabato 28 maggio 2016

Gli strati




Le lezioni continuano. Alti e bassi.
Stanno prendendo confidenza, si scoprono i caratteri e le debolezze, qualcuno è più fragile e viene preso di mira, bonariamente, ma non sta al gioco. 
Io metto tutto in chiave teatrale, parlo di forma, dell’importanza del come e non solo del cosa. Mi ascoltano come fossi un oracolo, ma già temo quando scopriranno le mie fragilità, quando prenderanno confidenza con me e da “dottoressa” diventerò semplicemente “Erika”, un bersaglio.
Sono davvero sgamati, osservatori pazzeschi del mondo. Guardinghi, impauriti, attaccano in anticipo per non doversi difendere.

La scorsa settimana è arrivato uno ed è andato al centro, sul palco:
- Devo fare una comunicazione importante. Sono andato su internet ho letto chi è, che cosa fa e ha fatto Erika. Io sono fiero di averla come insegnante. Dovete esserlo anche voi.

Io mi imbarazzo e sminuisco, ma devo ammettere che mi sono devoti.

Si applicano con una dedizione maniacale mettendosi in discussione, proponendo testi, portando libri, brani, trascrivendoli a penna su fogli di fortuna, perfino sulle ricette del medico! È ammirevole e commuovente il loro amore per questo corso.

- Mi fa meglio dello psicologo
Dice l’unica donna presente.
- Va be’, non esageriamo, per favore!
Però ci sono giorni in cui mi pare davvero di fare psicoterapia di gruppo. 
Di sua spontanea volontà la donna mi dice:

- Ho preparato un testo che però non posso fare da sola. Si tratta di una discussione tra me e mia figlia. Io faccio mia figlia, lui fa me.

Come nel migliore dei giochi teatrali di mimesi e d’immedesimazione assistiamo a una rappresentazione da brividi. 
Un ring. 
Da una parte una cinquantenne che tira fuori l’energia di un’adolescente e tutta la sua rabbia. Tutte le sue proteste per una madre che ha mostrato il peggior lato di sé, che avrebbe dovuto parere invincibile agli occhi della figlia, invece si è persa e alla deriva ha trascinato anche lei, bambina, i cui occhi innocenti hanno visto cose che non dovevano vedere e lo sguardo è divenuto ferita nel cuore. 
Adesso, adolescente, mostra il conto. 
Dall’altro lato, un uomo tenero e sempre molto pacifico e composto, che diventa una madre frustrata e arrabbiata, stanca che non sa più come chiedere scusa, che ammette i propri errori, ma che vuole che le vengano riconosciuti anche i meriti: tutte le azione di protezione e difesa che ha messo in atto per sua figlia.
L’uomo/mamma si inalbera e diventa paonazzo.
Catartico per noi che siamo spettatori, illuminante per loro, gli attori.

Dopo circa 15 minuti di grida. Lei si ferma. 
- Non riesco ad andare avanti! 
- Perché non riesci andare avanti?
- Perché io non farei come fa lui. 
- E cosa fa lui di diverso da ciò che faresti tu?
- Beh, io mi arrabbierei a tal punto che me ne andrei sbattendo la porta, chiuderei la comunicazione e griderei così forte da non far parlare più nessuno. 

Mentre dice queste parole, si illumina.
- Mi viene il dubbio che forse dovrei fare proprio come fa lui, vero Erika? Farei meglio a prendere da lui, perché io non la lascio parlare… La mia unica meta è urlare e sfogarmi cosicché non la ascolto e sembriamo due che fanno un monologo.


Non c’è molto da commentare, del resto ha fatto tutto da sola. 
Mi chiede di poterci lavorare ancora, la prossima volta, perché le pare che facendolo davanti a noi riesca a dire di più, ma soprattutto meglio. 
Accetto di buon grado e proseguiamo.

Adesso tocca al pensatore del gruppo, quello schivo, reticente, che pare un po’ insicuro, forse un po’ svogliato, ma che poi, quando è sul palco, si dona con generosità.

Prende la parola e racconta, in prima persona - pur non essendo lui il soggetto attivo della storia -  di un mondo parallelo al nostro, che probabilmente anch’io ho sfiorato molte volte, ma che non ho mai davvero guardato.

Il mondo dei sommersi nelle stazioni. 
I morti che camminano, li definisce lui.
Mi descrive una specie di torta alta, stile matrimonio, di cui io vedo solo uno o due strati, forse riesco a intuire che ce ne sono sopra di me, ma non ho la percezione che ce ne siano sotto e tantomeno come siano fatti.

In uno di questi strati ci sono coloro che alla stazione vivono. 
Da anni. 
Nel caso scelto dal nostro compagno, da 25 anni.

25 anni fa era un uomo normale, con una vita definita normale. 
Uno di quelli degli “strati alti”: un lavoro, una moglie, un figlio. 
Fa uso di droga, spesso insieme alla moglie. 
Ma niente di che. Solo per divertimento. Tutto sotto controllo, non è dipendenza.
Così dice lui. 
Così, dicono molti.
Una sera si sballa più del solito con la droga. Lo fa anche sua moglie. Sono insieme e con loro c’è il bambino. Dorme dietro, disteso sui sedili dell’auto.
Risate, scherzi.
Sono alticci, sradicati dalla realtà.
Lui ha i riflessi rallentati e il piede pesante.  
Sbanda e nello schianto perdono la vita i passeggeri. 
La sua famiglia.

Si risveglia in un letto di ospedale senza memoria breve. Senza ricordare niente dell’incidente e degli attimi che lo hanno preceduto.
Chiede notizie di sua moglie e del piccolo, i medici e i parenti sono vaghi per giorni. Poi, alla fine della degenza, ammettono che non ce l’hanno fatta.
Due settimane dopo l’incidente, lo dimettono dall’ospedale, può tornare a casa.
Ma lui la casa non ce l’ha.

Non è più tornato. 
Sono 25 anni. 
È in stazione centrale in attesa di prendere un treno che non passerà. 
Il treno verso il passato.

mercoledì 11 maggio 2016

Le loro storie


Torno a scrivere per mettere chiarezza nella testa, ma soprattutto nel cuore, perché davvero tante sono state le emozioni provate nell’ascoltarli.
Ho chiesto loro di fare una breve presentazione per poi far notare alcune cose su postura, uso della voce, gestualità… 
Avrebbero anche potuto dirmi: 
- Mi chiamo Pinco Pallino, vengo da Canicattì e ho fatto il barista fino a cinque anni fa. Oggi sono disoccupato. 
Fine.

Sarebbe bastato ai fini dell’esercizio teatrale. E invece no, per loro raccontarsi è un’urgenza e si impegnano. Fortemente. Si aprono con una fiducia che ha qualcosa di miracoloso.

Dopo la donna, tocca a un altro, straniero, che racconta del suo amore per l’Italia, un amore coltivato nel suo Paese, da bambino. 
La sua passione per il calcio, per la Juve:

- So tutte le formazioni della Juve dal ’78 al ’82. E’ per questo che sono andato a vivere a Torino, all’inizio.

Poi parla del suo negozio a Milano. Fallito.
Del suo matrimonio. Fallito.
Della sua vita che va a rotoli e che non pare avere più nessuna certezza. 
E allora sbanda: alcol, droga. La strada come unico luogo in cui vivere, una panchina su cui dormire con la bottiglia di fianco come unica compagna.

Lascia - o tralascia - cosa lo abbia fatto svoltare, riprendere un senso a tutto, ma adesso sta meglio, dice.
Ha due figli che ha ripreso a vedere, ma non ha rinnovato il permesso di soggiorno. Lo farà presto perché vuole essere in regola.

È asciutto nella descrizione, diretto, attento all’uso delle parole. Quasi cinematografico. Si pone frontalmente, senza tentennamenti. Ha il pensiero chiaro, lucido.
Stringe un foglio in mano sul quale si è segnato cosa vuole dire, ma non lo usa. È fluido nell’eloquio, diretto, bella energia, sguardo fiero.

Qualcuno comincia a fargli delle domande perché il racconto pare lacunoso, zoppo. 
E allora, tentenna, comincia a passare il peso del corpo da un piede all’altro, contrae i muscoli del viso, le spalle, il respiro si alza. 
E mentre parla della fatica che ha fatto a “ripulirsi”, a riprendere un po’ di dignità, a cercarsi un riparo meno esposto di una panchina in mezzo a una piazza, stringe i pugni. 
Adesso ha voglia di tornare a sedere, è evidente. Ma resta lì. 
Mi fa venire in mente il Buratto della giostra del Saracino. 
Un bersaglio in mezzo alle domande.
Interrompo la giostra.
Si siede. Il foglio ormai appallottolato tra le mani.

Arriva un altro, anche lui vuole stare in piedi. 
Inizia a raccontare che fa parte di una famiglia “tutta studiata”.
Ci tiene a precisarlo perché è laureato anche lui.
Almeno credo di aver capito così… Perché con lui la lingua è davvero un problema. 
Sa l’italiano, è qui da più di trent’anni, ma si fa davvero fatica a capirlo: le “p” e le “b” si confondono, usa i verbi all’infinito, sbaglia i femminili con i maschili e viceversa… e poi parla ad una velocità impressionante! Da record!
Finché è stato seduto, mentre parlavo io o gli altri, faceva fatica ad alzare lo sguardo, le mani sempre sulle ginocchia, in una compostezza d’altri tempi.
Ma appena si mette davanti a noi, si trasforma.
Un’energia pazzesca, un’entusiasmo contagioso, l’occhio aperto, vivace, diretto. Un ritmo nella narrazione fenomenale. 
Anche se non capiamo un acca, ci scappa da ridere lo stesso in alcuni punti perché è così capace di variare i ritmi, di dosare le pause che ti viene da dire: “questa cosa fa ridere di sicuro!”

Qualcosa la capto, per le altre sono costretta ad interromperlo per avere almeno dei puntelli a cui aggrapparmi.

Parla di destino. 
Anzi - come precisa - di destini.
Tre momenti fondamentali della sua storia.
In due ha perso quasi la vita ed è stato salvato per miracolo.
E l’ultimo è questo. Ciò che sta vivendo.

- Evidentemente devo stare in vita. Ma perché? Me lo chiedo ogni giorno e lo chiedo a Dio. Ancora non ho capito la risposta.

Sta per tornare a sedersi, ma si ferma e precisa che ha un carissimo amico che possiede, qui a Milano, un piccolo bar a gestione familiare. Gli ha sempre detto di andarlo a trovare, che è suo ospite, ogni volta che vuole, anche ogni giorno, per pranzo, colazione e cena.

- Il Corano dice che bisogna sempre scegliere la porta più dignitosa, non quella più comoda. Ecco perché vengo all’Opera di San Francesco. Perché è una porta che trasuda dignità.

Torna alla sedia, visibilmente soddisfatto.

Vorrei parlare e commentare, ma appena si siede lui, uno di fianco - come fosse un gioco a molla - scatta in posizione centrale.
E mette le mani avanti:

- Io non parlo di me.
- Va bene, nessun problema - dico - potreste inventare anche tutto quanto, non ha importanza ai fini dell’esercizio. A noi serve vedere, oggi, più il come del cosa.

Anche lui rifiuta la comodità della sedia e inizia parlando in terza persona singolare e al passato remoto:

- Nacque nel lontano 19…, da una famiglia semplice …

Sta di profilo, non si offre mai del tutto. Parla spedito, ma chiaro. La sua storia è ben preparata, diretta. 
Racconta di un uomo che viene in Italia perché ha il sogno delle belle donne italiane e che poi, arrivato qui, si fidanza con una Polacca. 
Lavora, sta bene, ha la macchina, un lavoro dignitoso, poi le cose cominciano un po’ a vacillare e lui non vuol perdere neanche un millimetro della posizione conquistata e accetta qualsiasi cosa pur di mantenerla.

- Ti sei messo rubare? - chiede la donna, interrompendolo.
E lo svela.
E lui, senza scomporsi, si fa svelare:

- Sì. Poi la droga, l’alcol, la strada…

Passa dalla terza, alla prima persona singolare, all’io, senza battere ciglio.
Apre il portafoglio e mostra due foto. Una di quando era felice e aveva tutto: bello, abbronzato, con un bel golf rosso e l’altra, staccata dalla sua prima tessera di Opera San Francesco: il volto gonfio, gli occhi spenti come il maglione che indossa.

- Le porto tutt’e due con me, sempre. Una mi ricorda il meglio e una il peggio. Una il bianco, una il nero. Adesso io voglio vivere in dignità, niente di più. Mi basta questo. Ma nel nero non ci torno.

Si risiede. 

Mi gira quasi la testa per tutte queste emozioni. 
Siamo davvero sicuri che qui la conduttrice del laboratorio sia io? Mi sento un’allieva.
Mi risveglio e cerco di riprendere un tono e un ruolo. 
Comincio a commentare ciascuno di loro in termini di postura, energia, capacità di presa del pubblico, sguardo, ritmo, emozioni mostrate e trattenute.

Loro intervengono cercando sempre di far paragoni con la vita quotidiana.

Ho sempre pensato che il teatro facesse bene anche a quelli che non desiderano farne un mestiere, ma in poche ore ho appreso una quantità pazzesca di applicazioni quotidiane! Fantastico!
E tutte suggerite da loro, il che è sbalorditivo.

Credevo che i senza fissa dimora fossero un po’ avulsi dalla realtà, un po’ dei sospesi dal mondo, indifferenti, preoccupati di altro. E invece, mi sa, che sono dei grandi spettatori che ci osservano, che studiano. Un po’ come un “pubblico del mondo”. Non sono attori dello spettacolo del quotidiano, ma lo guardano e lo commentano.

Partecipano anche alle mie osservazioni su ciascuno di loro e aggiungono sempre qualcosa. Non si offendono mai e sono molto complimentosi, molto generosi. Uno si commuove perfino perché gli hanno detto che sembra un attore americano…  Gli si inumidiscono gli occhi e racconta che da bambino andava a teatro e aveva sempre sognato di poterlo fare…

Guardo l’orologio. Mancano pochi minuti alla fine della lezione. Devono tutti scappare perché alle 17,00 devono mettersi in coda per la doccia, non possono indugiare.

- Non è possibile! 
- È già finita? 
- Ma se ci siamo appena seduti!
- Il tempo è volato!

Beh, non gli avrò fatto capire che non hanno solo tempo, ma che a teatro il tempo vola, sì!


Spengo le luci, mentre parlottano insieme. Li accompagno fuori e mi salutano soddisfatti, dandomi appuntamento alla prossima settimana.

Uno di loro, dopo il saluto, torna indietro, mi guarda e mi dice:

- Sto bene. Sono diverso da quando sono arrivato, ma sto proprio bene.


È ufficiale. Io li adoro!

sabato 7 maggio 2016

Primo giorno di laboratorio: la meraviglia




C’è chi arriva la mattina allo sportello dell'accoglienza per avere sicurezza dell’orario.
Chi arriva mezz’ora prima dell'appuntamento e aspetta. 

Del resto l’hanno dichiarato fin dall’inizio che il tempo è tutto ciò che hanno.
Di sicuro hanno un concetto diverso dal nostro. Dal mio, che sono fagocitata dal marasma degli impegni, con l’ansia di dover far fronte a tutti i miei ruoli: donna, madre, attrice, insegnante, domestica, figlia, amica…

Arrivano belli, profumati e lo dichiarano:
- Ha visto? Mi sono anche truccata per l’occasione. 
- Io ho messo un nuovo giubbino. L'ho preso al guardaroba lunedì.

Solo uno di loro arriva con un po’ di ritardo:

- Scusa - con lui ce l’ho fatta a ricevere il “tu” fin dal secondo incontro, evviva! - ho incontrato un amico che non vedevo da secoli, mentre venivo qui! Non voleva lasciarmi andare via! Alla fine gli ho detto che avevo un impegno importantissimo con un medico, una visita fondamentale. 

Una di loro conferma che, sì, beh, anche per lei venire a questo laboratorio è un po’ un modo di curarsi, di prendersi cura di sé, curando però non la parte malata, ma rafforzando quella buona, quella sana. Dandole più visibilità e più chance.

La loro capacità di analisi, il loro acume, ancora una volta mi sorprende.

Arriviamo in auditorium, i frati mi spiegano come si accendono le luci, come si spengono, e mi lasciano lì, con loro.

C’è ansia da prestazione, desiderio puro, voglia di fare.
Da entrambe le parti.

Provo a chiedere cos’è il teatro,  che idea hanno. Se dovessero spiegarlo a un marziano, cosa direbbero.

Hanno idee davvero confuse e la difficoltà con la lingua non aiuta, allora chiedo loro di organizzarsi una breve presentazione di se stessi, della loro vita, del perché sono qui… qualsiasi cosa, ma con la consapevolezza di doverlo raccontare “teatralmente”, davanti a noi che saremo il loro pubblico.

E qui comincia la meraviglia. 
I ruoli si invertono e sono io a diventare la loro allieva e discepola…

Inizia lei, per prima, si lancia. Vuole stare in piedi così si sente più a suo agio.
Racconta di sé in chiave psicologica, della sua difficoltà di relazione, della sua gran voglia di leggere, del suo bisogno di tuffarsi in un libro per vivere una vita migliore, più ricca (e non in senso economico). Ha proprietà di linguaggio anche se parla impastata di medicinali. 
Inizia così: 
- A volte penso, mentre parlo con gli altri, che quello che dico non abbia valore e allora comincio a fare discorsi che sembrano scatole, una dentro l’altra.

Le sue braccia sembrano appese, ciondolano, sembrano di troppo, non sa dove metterle, come metterle. 
E mentre parla, mentre racconta della sua vita, del suo rovinoso incontro con la droga, di come abbia imparato a sue spese che la libertà non è un concetto astratto altrimenti può diventare anarchia, si avvicina sempre più a noi che l’ascoltiamo attenti. 
Si sente più sicura in mezzo, piuttosto che davanti e, mentre parla delle sue figlie e del rapporto con loro, ci viene quasi di fianco. 
La dimensione frontale la espone troppo perciò si mimetizza. 
Parla per un bel po’, poi si ferma
Le scatole cominciano a diventare un po’ troppe, se ne accorge e si dà uno stop. 

Sono affascinata, catturata.
Ed è solo la prima persona che parla…
La prima vita che si racconta. 
Anche nella mia testa le scatole diventano tante. 
Le lascio sedimentare e tornerò a scrivere le altre storie. Ne ho bisogno.